Bentalha: Massacro in diretta per i generali

Bentalha tre anni dopo. Nuove rivelazioni denunciano la complicità dei militari nell’uccisione di 417 civili

Massacro in diretta per i generali

Algeria, un elicottero filmò la strage ma l’esercito restò fermo tutta la notte

dal nostro inviato

Valerio Pellizzari, Il Messagero, Domenica 3 Dicembre 2000

PARIGI – Quella notte i « terroristi » massacrarono 417 persone – in gran parte donne, bambini, vecchi – nel villaggio di Bentalha alla periferia di Algeri. Per tutta la notte un elicottero militare sorvolò quel quartiere popolare trasmettendo le immagini al comando delle forze speciali. Per tutta la notte una colonna di blindati restò ferma con i fari accesi a 150 metri dalle case che venivano assaltate, tre posti di blocco dei militari impedirono per molte ore ai civili di andare in aiuto delle vittime, le guardie comunali che volevano intervenire furono aggredite dai soldati, ed una decina di ambulanze radunate già prima che iniziasse il massacro restarono immobili fino all’alba. Dopo la notte del 22 settembre ’97 Bentalha resta il simbolo di una violenza barbara e primitiva. Ma a distanza di tempo, testimonianza dopo testimonianza, quella strage rivela una gravissima complicità dei vertici militari algerini. Coinvolti troppe volte nella strategia della tensione, dopo il golpe bianco contro il Fronte islamico.
Il generale Betchine – ex capo della sicurezza militare, uomo decisivo nella lotta dei clan – al momento del suo siluramento nell’estate ’98 minacciò di rendere pubblici i dossier sui massacri avvenuti nel ’97. Non era una sortita spettacolare, di facciata. Adesso quella minaccia generica rivela una dimensione ben più consistente. Si integra con i racconti di testimoni che hanno lasciato l’Algeria. Come Nesroulah Yous, imprenditore edile, residente a Bentalha. Come Habib Souaidia, tenente dei paracadutisti. Come altri che vogliono parlare ma senza esporsi alle ritorsioni.
L’elicottero in missione sopra il villaggio la notte del 22 settembre era uno degli otto elicotteri di costruzione francese, modello Ecureuil-Scoiattolo, dipinti in bianco e blu, attrezzati con infrarossi ed altri strumenti elettronici sofisticati per fotografare dall’alto le zone di operazione. L’elicottero filmava in diretta il massacro che avveniva in quelle povere case vicino agli aranceti e trasmetteva le immagini al Comando generale della lotta anti-sovversione, dove i responsabili avevano il quadro esatto della scena, in tempo reale. Da lì gli ordini rimbalzavano agli ufficiali distaccati nel villaggio, protetti dietro la colonna dei blindati. Per quasi sei ore – dalle 23,30 alle 5 – i cosiddetti « terroristi », che anche quella notte non lanciarono alcuna rivendicazione credibile, si mossero indisturbati.
L’elicottero aveva visto arrivare i camion con i banditi e li vedrà ripartire. Normalmente l’Ecureuil usciva in missione accompagnato da altri tre elicotteri di costruzione russa, più grandi e più rumorosi: il velivolo francese dava le coordinate, indicava i bersagli, poi gli altri tre intervenivano a bombardare con le bombe e con i razzi. Quella notte invece l’elicottero blu continuò a volare da solo.
Nesroulah Yous si salvò saltando di terrazza in terrazza, da un muro ad un altro, rompendosi una gamba che ancora oggi lo fa penare. Decise che avrebbe speso il resto della sua vita a raccontare la cronaca dettagliata ed autentica di quella notte infame. Ha pubblicato da poco in Francia « Chi ha ucciso a Bentalha? ». A parte le accuse generiche e gli insulti al telefono nessuna fonte ufficiale ha smentito il suo resoconto. Certo, per giustificare l’inerzia scandalosa e prolungata dei militari, le autorità hanno spiegato che la zona era stata minata dai terroristi. Ma i civili, le guardie comunali che volevano andare in aiuto alla fine non troveranno una sola mina.
Il massacro cominciò con il verso degli sciacalli ripetuto da un aranceto ad un altro, seguito da una serie di esplosioni e dal lancio di proiettili traccianti. I « terroristi » passarono di porta in porta, dentro il piccolo perimetro del quartiere di Hai el Djilali, la città di Djilali. Usavano le bombole di gas, collegate a due fili elettrici, come bombe rudimentali per sfondare muri e portoni. Quei portoni di ferro che sono diventati negli ultimi dieci anni la protezione obbligata e primitiva di tutte le case algerine. Poi con asce e coltelli passavano di stanza in stanza tagliando, mutilando, bruciando. Non risparmiavano nessuno. Un giovane handicappato, soprannominato « Cioccolata », fu tagliato a pezzi e le sue urla attraversarono tutto il villaggio. Le donne con i bambini, ammassate come animali impauriti, imploravano: «Uccideteci con le pistole, non tagliateci la gola». Alcune di loro, ormai sicure della morte, si erano cosparse il collo con l’olio per fare scivolare meglio la lama degli assassini, per soffrire meno. Ma il gesto abituale di sgozzare i montoni quella notte si ripetè contro gli abitanti del villaggio, indistintamente.
Yous racconta che i « terroristi » avevano strane barbe. Alcuni si nascondevano con il passamontagna. Ma lanciavano le stesse grida: veniamo e vi sgozziamo tutti. Il giorno dopo, quando i sopravvissuti tornarono sul luogo del massacro, trovarono un po’ ovunque siringhe e bustine di polvere bianca. Ma questa ipotesi dei « terroristi » che si drogano prima di compiere i massacri contro i civili è una voce che ricorre ormai da vari anni in Algeria. Invece il tenente Habib non ha bisogno di affidarsi alle dicerie. Lui viveva nelle caserme delle forze speciali e racconta con precisione come andavano le cose: «L’ottanta per cento delle unità speciali prende la droga prima di una operazione». Gli ufficiali lo sanno ma nessuno lo impedisce. Quelli che hanno tentato di intervenire sono stati trasferiti o rimossi. La droga non viene distribuita dentro le caserme, ma tutti i militari sanno dove andare a procurarsela. Forse solo così si spiegano i racconti che vengono da villaggi poverissimi, dove oltre alle madri sgozzate i bambini sono stati gettati nei pozzi o dentro i forni.
Attorno a Bentalha quella notte erano dislocati complessivamente circa quattromila militari. I responsabili del massacro erano circa duecento. Ma la inerzia e la complicità delle forze regolari si era già vista in altro modo la sera del 28 agosto ’97 a Rais, a venti chilometri da Algeri, quando furono assassinate più di trecento persone. Il comandante dell’unità 772, forze speciali dell’aviazione, doveva proteggere la zona con centoventi uomini. Ma quella notte i superiori ne lasciarono sul posto solo trenta. L’ufficiale chiese ripetutamente rinforzi che non arrivarono mai. Un mese dopo la stessa unità si trovava a Bentalha, per rinnovare la sua dimostrazione di inerzia. L’ufficiale, troppo ostinato nelle sue richieste, ha subito procedimenti disciplinari ed un anno di prigione.
Dopo Bentalha il generale Said Bey, comandante della Prima regione, è stato rimosso. In realtà finì in Svizzera, con un incarico diplomatico, a rappresentare il suo Paese presso le Nazioni Unite. I sopravvissuti al massacro dopo pochi giorni hanno ricevuto alcuni fucili che avevano chiesto con insistenza nei mesi precedenti per organizzare l’autodifesa del villaggio. Quella notte usarono le pietre, le bottiglie molotov e i coltelli. Dopo qualche settimana le autorità comunali hanno installato alcuni riflettori, chiesti da anni, per illuminare il quartiere di Djilali. Resta sempre in ombra la composizione dei gruppi terroristici legati al Gia, che è una sigla islamica estremamente ambigua. Ma ormai un numero sempre più vasto di ufficiali intermedi dell’esercito e della polizia testimonia che quelle bande erano composte da criminali autentici, da trafficanti, da sbandati, da gente ricattata, manipolata da alcuni clan militari. A Bentalha l’elicottero, i blindati, le ambulanze ed i posti di blocco sono serviti solo a garantire la puntualità e l’efficienza del massacro. Lo diceva anche il povero Messaud, testimone qualunque di quella notte infame. Fino a quando un ufficiale della gendarmeria non gli ordinò davanti a tutti con la pistola in pugno di tenere la bocca chiusa.

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